Sonata Arctica "Pariah’s Child"

Fausto Forti 15 set 2016
Si intitola Pariah's Child l'ottavo power metal album dei Sonata Arctica che opta per melodie accattivanti, solismi catchy ed arrangiamenti stringati ma incisivi. Con tanto di richiamo del lupo... non a caso tornato sulla copertina!

I Sonata Arctica esistono dal 1999 e da allora hanno sfornato una serie di ottimi power metal album. Al contrario di molte band che si prendono troppo sul serio, sono riusciti a trovare il giusto equilibrio tra momenti musicalmente “seri” e altri persino autoironici: da sempre l’elemento che garantisce loro schiere crescenti di estimatori.
Pariah’s Child, il loro ottavo capitolo, non fa eccezione, evitando di compiacersi troppo, optando per un ritorno alle origini: melodie orecchiabili con aperture soliste ben calibrate, testi mai banali e arrangiamenti stringati ma incisivi. Tornando così ad ascoltare il richiamo del lupo, non a caso riapparso in copertina.

I Sonata non hanno mai amato ripetersi, manifestando l’intenzione di imprimere a ogni nuova uscita una svolta al loro mood: volontà già espressa sui solchi di The Days Of Grays, cupo e minaccioso, e del precedente Stone Grows Her Name, malinconico e oscuro. Pariah’s Child è ancora ...
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info intervista

SONATA ARCTICA
Tommy Portimo
Pariah’s Child
diverso. Nel senso che, pur mantenendo inalterata la sua essenza, guarda alle origini riguadagnando freschezza e immediatezza.

Pariah’s Child si apre sulle note folk metal di The Wolves Die Young, di per sé già una piccola sorpresa. La chitarra è distorta e la ritmica subdola e avvolgente, mentre in sottofondo si muove un mandolino: un brano decisamente melodico, dai risvolti onirici (... gli Stratovarius sono in agguato).

Netta la sterzata di Running Lights, ritorno a un metal più ortodosso. La batteria di Tommy Portimo sale in cattedra affidandosi alla più classica delle bordate in doppia cassa, accompagnata da un ritmo incalzante e un testo velato omaggio a Lou Reed (‘he was one of the wilder kind’).
Segue Take On Breath. Inizio affidato alle tastiere e a un disegno di batteria quasi infantile, effetto-carillon, che piano piano acquista vigore sino a che il riff ficcante della chitarra fa letteralmente esplodere il brano: musica ai confini del metal e testo che parla degli aspetti filosofici della natura umana, trattando un argomento tale con leggerezza e un tocco di autoironia.

Cloud Factory è uno dei brani migliori grazie ad un accattivante gioco di tastiere e all’incedere del tutto, fresco e brillante. In buona sostanza, fino ad ora, quattro brani e altrettanti centri...
Il successivo Blood continua su questa linea.
L’ululato di un lupo precede l’intro liquida di tastiere, doppiate dalla Pearl di Portimo e dal basso, sino a creare un paesaggio sonoro dai contorni heavy. Protagonisti assoluti sono la voce di Kakko e la ritmica (oltre alle tastiere, soprattutto all’inizio) con un Portimo scatenato, alle prese con doppia cassa e rullante. La presenza del clavicembalo, nel finale, è la ciliegina sulla torta. Sei minuti di suoni strani, quasi da racconto sci-fi, che compaiono e scompaiono: un brano assolutamente intrigante.

What Did You Do In The War Daddy ? tocca tutt’altri registri. Inizia come una nenia, per crescere grazie alle tastiere che tratteggiano una melodia lieve e malinconica, che avvolge l’ascoltatore come un sudario. Il testo, riferito verosimilmente al padre dell’autore, parla di ricordi di Guerra, dolorosi per definizione. Un brano che stenta a essere metabolizzato e merita ripetuti ascolti ma che, una volta assimilato, trasmette profonda emozione.

Cambio di scena. In Half A Marathon Man, basso e batteria irrompono minacciosi, raggiunti da una chitarra dalle sonorità quasi folk. L’intro non tragga però in inganno: un mid tempo di chiaro stampo metal aggiusta infatti il tiro e il brano assume connotazioni hard rock, con l'aggiunta di un delizioso intervento dell'Hammond sul finale e un pregevole assolo di chitarra.
Sin qui Pariah’s Child si è mantenuto su ottimi livelli, ma le cose belle, si sa, hanno sempre una fine.

X Marks The Spot è un brano “fuori posto”, quasi folle nella sua costruzione melodica e vocale, avulse da ogni contesto. Alla fine riesce comunque a guadagnarsi dei punti, anche se alcuni passaggi, soprattutto vocali, restano spiazzanti. Siamo (quasi) giunti alla fine e di ballad nessun segno. Sinora...
Poi arriva Love che è una canzone d’amore (una delle poche nella pur vasta discografia dei Sonata Arctica) in verità non eccelsa, anzi. Manca la spinta giusta, l’abbrivio iniziale: se non è un riempitivo, poco ci manca. Eppure, può contare su una prestazione vocale maiuscola, dai toni drammatici, su un ricco lavoro delle tastiere e un assolo di chitarra di ottima fattura. Ma non riesce a decollare.

Chiude Larger Than Life e lo fa in modo più che dignitoso. In debito con Queen e Pink Floyd, sembra più la traccia di una colonna sonora che una song per sé. Lunga quasi dieci minuti (ricorda a tratti Deathaura su The Days Of Grays del 2009), racchiude elementi teatrali e cinematografici avvalendosi di complicate orchestrazioni e intricate parti di tastiere. Da notare infine la prestazione vocale di Kakko, mutevole e variegata.
Il brano termina con l’esortazione a non prendere la vita troppo sul serio: viceversa si rischia di non godere appieno delle sue gioie. E qui si torna all’assunto iniziale. Se non sarà una risata a seppellirci, un pizzico d’ironia senza dubbio torna utile...

SONATA ARCTICA lineup
Tony Kakko - vocal
Elias Viljanen - guitar
Henrik Klingenberg - keyboard
Pasi Kauppinen - bass
Tommy Portimo - drum


TOMMY PORTIMO ci parla di Pariah's Child

Nella storia dei Sonata Arctica ogni album possiede un feeling unico, un’anima precisa. Pariah’s Child non fa eccezione, grazie a un upbeat più marcato, con striature heavy e un senso di sottile ironia che pervade molti brani, a cominciare da Cloud Factory...

Avevamo a disposizione molti brani eccellenti, così abbiamo deciso di lasciarci trasportare dal desiderio di tornare alle nostre radici. Alla fine la scelta è stata quasi obbligata e il tenore dell’album e' risultato deciso. Il brano che ci ha convinti a seguire questa direzione è stato The Wolves Die Young. L’abbiamo amato da subito e deciso che l’intero album avrebbe avuto il suo mood deciso e grintoso. Così Kakko ha praticamente riscritto alcuni brani. Già durante il tour di Stones Grow Her Name, infatti, ci era apparso chiaro che avremmo dovuto alzare il tiro, ma le idee di alcuni pezzi che avrebbero dovuto trovar posto sull'album non rientravano in questo obiettivo: ergo, bisognava rimboccarsi le maniche e ricominciare (quasi) da zero. E qui veniamo a Cloud Facorty. L’unico di quel lotto che si adattasse al nuovo corso. Il brano è di qualche anno fa e quando Tony (Kakko) ce lo ha fatto ascoltare abbiamo deciso di tenerlo.

Lungo tutto l’album si avverte un senso di riscossa, di voglia di ingranare la classica marcia in più, pur mantenendo quel filo di sottile ironia che da sempre vi distingue. Uno dei brani che colpisce maggiormente è Larger Than Life, a cominciare dai neanche troppo velati riferimenti ai Queen e, in parte minore, ai Pink Floyd. Cosa vi ha spinti a scrivere un rock anthem?
E’ accaduto. Un giorno Tony ha iniziato a giocherellare con alcuni samples e subito è venuta fuori l’intro, insieme ad alcuni tratti del tema. Gli elementi via via si sommavano e il brano continuava a dilatarsi, ad assumere proporzioni enormi! [ride] Da qui gli echi dei Queen, e penso alla loro classicissima Bohemian Rapshody, e ai Pink Floyd. Il titolo, vista la grandeur della musica, ci veniva quindi servito su un piatto d’argento: cosa, meglio di Larger Than Life?

Un’altra traccia interessante è What Did You Do In The War Dad? Ascoltandola, viene in mente un piccolo classico del vostro repertorio, mi riferisco a Replica (da Ecliptica, 1999). Può essere?
Non ci ho pensato. In comune queste tracce hanno l’atmosfera, certe sonorità care agli amanti del power, e forse il fatto di necessitare di diversi ascolti per essere comprese e apprezzate appieno. Avrebbe potuto essere un Replica II? Forse, di certo non era questo che avevamo in mente.

A proposito di sound, quello dei Sonata Arctica è molto cambiato da Ecliptica (1999) a oggi. Si tratta della vostra naturale evoluzione in quanto musicisti, o è da addebitare al costante sforzo di reinventarsi?
Credo entrambe le cose. Abbiamo sempre prodotto da noi gli album, così migliore era il risultato, e più ambiziosi diventavamo. O, almeno, cercavamo di variare la ricetta cambiando gli ingredienti. Da Unia (2007) in avanti abbiamo avuto il coraggio di sperimentare, di progredire puntando in diverse direzioni. Certamente il mio drumming si è modificato con gli anni: ho accumulato esperienza e affinato la mia tecnica, e le due cose combinate mi hanno permesso di ottenere risultati sorprendenti.

Quando hai iniziato a suonare la batteria?
A undici anni, e alla tenera età di quattordici ero già nei Sonata Arctica! Alcuni anni più tardi, nel 1999, firmammo il nostro primo contratto (con la Spinefarm Records) e pubblicammo Ecliptica. Adoro la doppia cassa, perché credo sia perfetta per il nostro genere di musica; riguardo allo stile, sono irruento eppure attento ai dettagli tecnici: cuore e cervello sono entrambi fondamentali.

Il tuo gear?
La mia batteria è una Pearl, i piatti sono Paiste e le bacchette Pro-Mark 5°: un equipment ottimo e che risponde appieno alle mie esigenze.

I brani di Pariah’s Child che ti hanno dato più soddisfazione, come batterista?
Premettendo che il mio drumming è al servizio della band e dei brani, dunque nessuna smania di protagonismo, sceglierei Blood, Half A Marathon Man e, soprattutto, Running Lights, tecnicamente il brano più complesso.

di Fausto Forti

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