NICK MASON The Delicate Sound Of Thunder

Eugenio Palermo & Teri Saccone 11 ago 2022
Nel 1964 lo psicoanalista francese Jacques Lacan affermava che l’orecchio, nel campo dell’inconscio, è l’unico orifizio del nostro corpo che non può chiudersi. L’ascolto non è mai volontario, il suono ci investe e ci avvolge inermi senza che possiamo rifiutarlo, scatenando così le arcane pulsioni dell’inconscio stesso, ambito separato della personalità umana del quale noi non abbiamo controllo ma al contrario ne subiamo passivi le tensioni profonde.
Se si accetta tutto questo, allora i Pink Floyd sono stati il suono dell’inconscio, rappresentato in forme diverse nella loro lunga discografia e, soprattutto, fin dai loro pionieristici live dall’innovativo e sconvolgente surround quadrifonico. Una carriera mitologica che può essere suddivisa in tre fasi, corrispondenti a tre differenti formazioni e relative differenti leadership. Una prima fase propriamente psichedelica, guidata dal carisma visionario e avanguardistico di Syd Barrett; una seconda fase art-progressive segnata dall’abbandono del Diamante Pazzo Syd, sprofondato definitivamente nella sua alienazione lisergica, e dall’ingresso di David Gilmour, e dominata dalla creatività e dall’ego di Roger Waters; infine la terza, conclusiva, fase rock-driven, traumatizzata dall’abbandono di Waters, in cui giganteggia la figura di guitar hero di Gilmour.
Unico riferimento costante di tali svolte radicali e drammatiche disseminate in quasi cinquant’anni, è Nick ...
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Saucerful Of Secrets Band
Nick Mason
Saucerful Of Secrets Band
Mason, batterista presente in tutti i lavori ufficiali targati Pink Floyd.

Nicholas Berkeley Mason nasce nel 1944 a Birmingham da una benestante famiglia borghese poi trasferitasi a Londra. Di indole umile, serafica e sarcastica, Mason ha sorvolato con flemma e humour tipicamente inglesi i successi planetari e le crisi profonde dei Pink Floyd, non lasciandosi trascinare mai nelle faide che hanno ciclicamente dilaniato la band, anzi, risultando spesso elemento di coesione, vero architrave sia delle complicate dinamiche interpersonali, come delle suggestive cattedrali oniriche dei Floyd, pur non essendo dotato di tecnica straordinaria. Offuscato dal protagonismo (oltre che dalle bizze) dei suoi sodali, Mason è rimasto ingiustamente bollato come quello del 4/4 lento: definizione cervellotica visto che è stato piuttosto il metronomo perfetto delle cadenzate epiche dei Pink Floyd, il mood dei loro momenti più intensi.

Il nome di Mason non è mai fra i primi ad essere menzionato quando si snocciola il gotha dei batteristi rock, probabilmente perché non è morto giovane di overdose, o perché non sfasciava le camere degli hotel, o perché non farciva il suo drumming di tempi dispari o rullate ipercinetiche come se non ci fosse un domani. Eppure Mason appartiene a quella schiera di pionieri che hanno coniugato rigore jazz (la traditional grip degli esordi, ad esempio) e vigore rock ma, a differenza di molti di questi eroi, ha sempre mantenuto un’attitudine sperimentale, attingendo a mani piene anche dalla musica concreta, dall’avanguardia e dall’elettronica, elaborando un sincretismo semplice e affascinante, e sempre al servizio della ricerca sonora della band, rifuggendo da tecnicismi e concentrandosi invece sull’espressività e la funzionalità del suo drumming.

Se Barrett è stato il leader visionario e compositore unico, Wright il musicista più raffinato, Waters il riottoso contestatore e Gilmour il timbro iconico, Mason ha rappresentato l’anima più ancestrale e dionisiaca dei primi Pink Floyd. Il suo tocco sui tamburi incredibilmente pulito, perfettamente a tempo ed elegante quanto energico ed essenziale, è riconoscibile all’istante così come i suoi proverbiali stacchi; il suo stile intuitivo e comunicativo quanto di più lontano dai lambiccati barocchismi del nascente prog o dalle acrobazie muscolari dell’hard blues. Dadaista, minimale, esoterico, geniale nella sua ricerca di togliere invece di aggiungere per non annacquare le allucinazioni policrome tinte dai suoi sodali ma, al contrario, per potenziarne l’eco tenebrosa. Tutto questo è palese soprattutto nei Pink Floyd del periodo aureo 1967-1971, gli anni in cui Mason raggiunge il suo apice creativo, quando la band, utilizzando il mitico mixer WEM come quinto elemento, e sperimentando le possibilità del Coordinatore Azimuth, è stata pioniera del suono abissale della psichedelia.

Quando nel 1965 tre studenti di buona famiglia e cultura del Politecnico di Regent Street (Richard Wright, Roger Waters e Nick Mason) capitanati da uno studente di arte (Syd Barrett) mettono su i Pink Floyd, l’onda lunga e caleidoscopica della psichedelia statunitense sta per colorare anche le bianche scogliere albioniche, rivoluzionando il rock della swinging London, divisa fra beat e hard blues.
Di etimologia greca antica, psichedelia significa letteralmente visione dell’anima ed esalta l’espansione e la liberazione della propria coscienza tramite le amplificazioni e le alterazioni sensoriali provocate dall’assunzione di sostanze psicotrope come la mescalina, la psilocibina e soprattutto l’LSD, il nuovo allucinogeno emblema del movimento psichedelico. Quest’ultimo, a sua volta è parte integrante della multiforme contro-cultura giovanile americana degli anni ‘60, riassunta nell’utopia universale del Peace & Love che si contrappone alla società borghese del tempo definita autoritaria, materialistica e guerrafondaia.
Per la prima volta nella storia dell’umanità, una generazione (quella dei figli) contesta rumorosamente un’altra (quella dei padri), demolendone i valori, le ideologie, le convenzioni, a colpi di wah-wah, organi Vox e trip lisergici celebrati in Festival oceanici.

The Piper At The Gates Of Dawn – Il rock psichedelico viene istituzionalizzato definitivamente nel 1966 dai texani 13th Elevators Floor che intitolano esplicitamente il loro sensazionale esordio Psychedelic Sounds. L’anno-zero della psichedelia invece, quello che riscrive irrimediabilmente la storia della musica popolare del mondo occidentale, è il 1967. L’anno della Summer of Love, celebrata nella tre-giorni di Pace, Amore e Musica del Festival di Monterey incendiati da Jimi Hendrix, fresco di esordio con lo storico Are You Experienced? Ma è anche l’anno di Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane, di Absolutely Free di Frank Zappa, di Younger Than Yesterday dei Byrds e dei debutti di Doors, Grateful Dead, Velvet Underground, Red Crayola. E di The Piper At The Gates Of Dawn, il primo capitolo dell’epopea dei Pink Floyd.
La psichedelia irrompe in Europa con un disco sconcertante, inaudito, capace di far sprofondare la mente umana nei gorghi angoscianti dell’alienazione come di blandirla con beat lisergici e bucolici; un disco capace di mescolare le armonie perfette dei Beatles, il folk acido dei Byrds, i deliri free-form dei Grateful Dead, il jazz elettronico di Sun Ra, l’avant-gard della sei corde di Keith Lowe, l’elettronica cosmica di Stockhausen e il minimalismo hippie di Terry Riley. 33 giri di vinile a metà fra fiaba e horror, che scorrono deliranti dal rivoluzionario chitarrismo distorto, dissonante e drogato di feedback dell’istrione Barrett, negromante glam studiato nei minimi dettagli dal giovanissimo Bowie durante le primissime esibizioni dei Floyd al leggendario UFO di Londra. Le filastrocche di Barrett, imbevute di Tolkien e Carroll, sono allucinazioni officiate lungo undici viaggi nei meandri della mente, oscuri e infiniti come l’Universo, lastricati dalle tastiere spaziali di Wright, pulsanti le nevrosi oscure di Waters, scanditi dall’essenziale ed evocativo battito cardiaco di Mason, ora catalettico, ora forsennato, mai banale.
In un album che è la vetta insuperabile della psichedelia, i due pezzi più geniali vengono resi letteralmente maestosi da Nick Mason: Astronomy Domine e Interstellar Overdrive. Il primo è il volo cosmico dell’LSD che si fa vertigine; due anni prima che l’uomo sbarchi sulla Luna, Barrett diventa un Icaro astronauta hippie, supportato dall’espressionismo di un Mason che lavora unicamente sui timpani, come quasi nessuno all’epoca; il secondo brano – con le sue traiettorie spiroidali che si aggrovigliano su se stesse per poi dipanarsi e frangersi di nuovo ed essere risucchiate dai buchi neri dello stordimento, con le sue ragnatele chitarristiche tetre, il suo riff horror e il suo pulsare acido – è l’apice creativo di Barrett che risuonerà nei decenni a venire nelle epilessie punk di un Daniel Ash o di un Kurt Cobain. Una jam strumentale di undici minuti dove Mason dietro i tamburi è strepitoso: Buddy Rich che pesta invasato come se fosse Jackson Pollock perso nella Discovery Uno di “Odissea nello Spazio”.

Registrato nel febbraio del 1967 ai londinesi Abbey Road Studios (mentre curiosamente i Beatles, nello studio accanto, lavorano sul fondamentale Sgt. Peppers) Piper At The Gates Of Dawn è un flusso di coscienza onirico, Ginsberg e Joyce dissolti in un puro e anarchico suono che esonda sino a farsi rumore. E per quanto arrangiato, esso non è mai domato, ma si mantiene libero da qualsiasi forma-canzone; tornato di nuovo mezzo per comunicare, questa volta con l’inconscio (o per precipitare in esso) e non più fine di esibizionismo virtuosistico. Perché i Pink Floyd non sono dei virtuosi. Sono piuttosto medium, ricercatori che esplorano i mondi infiniti offerti dalle nuove droghe, dal progresso tecnologico nel campo della registrazione e dell’amplificazione e dall’avvento dei sintetizzatori, per farsi latori di un suono nuovo, liberatore, folle. Una follia lambita da Barrett fino a rispecchiarsi per poi cadervi dentro e annegarvi.

Dopo Piper At The Gates Of Dawn la band deve metabolizzare la perdita del songwriting di Barrett ed assimilare il tocco unico del più blues-oriented Gilmour, entrato per supportare il sempre più inaffidabile Syd.

A Saucerful Of Secrets – viene pubblicato l’anno dopo, 1968, faticosamente registrato per le bizze di Barrett. È un meraviglioso prisma versicolore che irradia sinestesie in una terra di mezzo, fra i Pink Floyd che non ci sono più e quelli che non ci sono ancora.
L’apporto di Syd è minimo mentre il più solido Gilmour, appena entrato, non può fare molto nella composizione, la quale ricade principalmente sulle spalle di Waters e Wright. Se Piper… era figlio unico della infantile e lisergica immaginazione di Barrett, il successivo Saucerful è un’opera più corale, intessuta da quattro cantanti e tre autori e una canzone collettiva. Da qui incongruenze stilistiche ma anche il fascino enigmatico di un mosaico bizantino. È un’ibrida formazione a cinque che funziona ad intermittenza per il degenerare dell’equilibrio mentale di Barrett ma quando si accende sbalordisce e pietrifica. Set The Controls For The Heart Of The Sun è l’unico pezzo registrato da tutti i cinque. Un obelisco psichedelico innalzato alla onnipotenza divina del Sole, nenia che si aggira randagia come uno spirito fra le rovine di Stonehenge. Un mantra scritto e mormorato da Waters, sciamano in trance e travolto da un crescendo d’intensità drammatico e parossistico delirato dal jazz tribale di Mason che si ostina su timpani, vibrafono e gong per amplificarne le visioni desolate, ipnotiche e catartiche che saranno poi fatte proprie dai Tool o dagli Om. Non a caso Mason lo indicherà come il suo pezzo preferito da suonare.

Al tempo, oltre a smanettare con nastri ed elettronica, Mason è molto coinvolto con il jazz e le big band: non è granché interessato a raggiungerne la tecnica, ma da esso trae ispirazione per le dinamiche etniche che attraversano il format-canzone, rese celebri anche dall’utilizzo delle mazzuole. [Intuizione che lo stesso Mason ricava dal celebre batterista jazz Chico Hamilton che tanto ammira allora] La titletrack poi è uno strumentale di dodici minuti di audace avanguardia psichedelica, suddivisa in quattro sezioni dove s’intrecciano terrore e misticismo, grazia e collera, tenebra e luce, in una desolazione surreale, cosmica. Esemplificativo dell’approccio musicale di Mason, più interessato a innovazioni come i ritmi montati a loop sui nastri magnetici che a tempi in 7/4.
È una discesa agli inferi introdotta dai sibili gelidi e raccapriccianti di organo e poi incalzata dal drumming ossessivo di Mason che lotta furibondo con la violenta destrutturazione rumorista alla Stockhausen di Wright fino ad imporre l’ordine sul caos, prima che il Farfisa di Wright cerimoni gotico la fine della sanguinosa cacofonia e l’ascensione finale.

Ad aprire e chiudere un disco seminale, il basso funky del misterico Let There Be More Light (poi ripreso dai califfoni del big beat Chemical Brothers in Black Rockin Beats) ed il commiato straniante di Barrett nel sardonico Jugband Blues, la sua unica firma nell’album. Syd sarà poi inevitabilmente lasciato al suo destino. Il Diamante Pazzo smetterà di splendere nel 1970 dopo la pubblicazione del disco suo solista (titolato Barrett) e dopo soltanto tre rivoluzionari anni di carriera, inabissandosi per sempre nel buio della sua mente.
I suoi compagni continuano, portandosi come fardello la nostalgia e il senso di colpa di ciò ed iniziando lentamente a mutare dalla psichedelia più avanguardistica ad un progressive dilatato ed atmosferico. In questa evoluzione, fondamentali saranno l’apporto di Gilmour, più radiofonico e iconico e la scrittura geometrica di Waters, mentre Wright e Mason manterranno ancora saldo l’approccio sperimentale e free-form.

More – Nel 1969 i Pink Floyd escono con il loro terzo album, colonna sonora dell’omonima pellicola d’esordio del regista Barbet Schroeder. Incredibilmente snobbato, More è in realtà un lavoro organico, umorale, con un forte e libero contributo di tutti e quattro i membri. La band è perfetta nel musicare un film incentrato sulla vita bohemienne di una coppia di giovani, persi negli eccessi di Ibiza, allora epicentro del mondo hippie, fra spacciatori di eroina e sesso libero. Del resto l’unione totale delle arti – la Gesamtkunstwerk cara a Wagner e Klimt – era anche negli intenti del rock psichedelico, ed il cinema la rendeva possibile.
I Pink Floyd associano da sempre sperimentazioni sonore e visive, fin da quando – nelle shockanti serate all’UFO di Londra – suonano mentre su di loro vengono proiettate luci stroboscopiche violentissime e diapositive "liquide", modificate con vernici acriliche colorate e gocce di olio, per ampliare il senso di straniamento del loro sound.

More è il primo album senza Barrett ed è una tavolozza impazzita di suoni acidissimi registrata in sole otto alteratissime notti. Gilmour canta tutti i pezzi, dal folk trasognato di Cirrus Minor (con un finale da brividi di un Hammond gregoriano al quale Wright sovrappone uno psicotico e spettrale Farfisa), fino al graffio potente come mai più dopo di Nile Song, sdrucito come un pezzo grunge e anthemico come uno heavy metal. Up The Khyber poi, è una jam-session firmata dall’ispiratissimo duo Wright-Mason, una febbre che delira Thelonius Monk e Gene Krupa in due minuti di convulsioni free-jazz.
Inquietante il futuristico strumentale Main Theme che sorge dai fragori di gong dipanandosi poi fra paesaggi à-la Dalì del tremante Farfisa di Wright che svanisce all’incedere raga di Waters. Mason sa di albe livide di bad trip e Bristol-sound, intarsiato dalle scale orientali di Wright e dalla pedal steel guitar di Gilmour. Una danza ipnotica come un’eclissi solare, il trip-hop dei Massive Attack bucato in vena trent’anni prima.

Ummagumma – Ma c’è ancora lo scetticismo di chi crede che senza Barrett i Floyd non possano andare da nessuna parte. Così, in quel frenetico 1969, esce anche il controverso Ummagumma, acclamato dalla critica e dal pubblico, stroncato successivamente dalla band stessa. Un doppio monumentale e ambizioso, registrato nei ritagli di tempo di un anno pieno di progetti e tour, con una parte live e un’altra in studio. L’idea di un disco dal vivo nasce durante il tour del 1969, quando Waters si rende conto che le continue dilatazioni e improvvisazioni, tipiche dell’approccio live della psichedelia e soprattutto dei Pink Floyd, hanno stravolto alcuni brani del repertorio. Il disco live è dunque un preziosissimo documento della straripante potenza emotiva dei primi Pink Floyd sul palco. I già celebrati Astronomy, Set The Controls, A Saucerful, sono potenti e maestosi come asteroidi che solcano l’inconscio umano con il loro bagliore, il loro rombo. Careful With That Axe Eugene invece è già stato pubblicato come singolo a fine ‘68 e reso immortale due anni dopo nella versione che accompagna la storica scena finale di “Zabriskie Point” di Antonioni: qui il brano è semplicemente mastodontico, un’onda di nostalgia ancora più lenta e ipnotica che si gonfia sommessamente squarciandosi all’urlo black metal di Waters e abbattendosi sui paesaggi lunari e desolati della mente umana.
Se i pezzi acquisiscono più potenza e sfumature, gran merito va a Mason, così istintivo e naif che fatica ad essere valorizzato in studio, soprattutto ora che il suono dei Pink Floyd si è fatto più compatto che anarchico. Il secondo disco [Ummagumma, ricordiamolo, è un doppio] è invece uno spazio libero che Waters affida alle composizioni soliste di ognuno dei quattro. È un momento altamente pretenzioso dai risultati notevolissimi. Grand Vizier’s Garden Party, suite suddivisa in tre momenti, rappresenta uno dei rarissimi momenti in cui Mason firma da solo un brano dei Pink Floyd. Invece dei canonici assoli di batteria di dieci minuti, Mason elabora un ipnotico e tribale trip fra elettronica, ambient e rock, aperto e chiuso dal delicato flauto di sua moglie Lindy, in linea con l’approccio sperimentale del disco. Con Ummagumma i Pink Floyd salutano l’avanguardistica psichedelia in Barrett-style, così come la fine del 1969 segna il tramonto della stagione hippie e delle sue utopie.

Atom Heart Mother – I Floyd sono in uno stato di frenesia creativa che li porta ad imbastire diversi progetti. Il flirt con il cinema continua, sono corteggiati da Kubrik e Antonioni ma soprattutto vogliono ulteriormente spingere in là i propri limiti e trovare la propria nuova identità. Nasce così Atom Heart Mother (1970) dalla storica copertina con una enigmatica mucca frisona in primo piano, il disco che inizia e conclude la stagione prettamente progressive della band.

Nel 1970 Genesis, Yes, King Crimson e il Canterbury sound (così apprezzato da Mason) con una collana di album di raffinata complessità, hanno già codificato il genere ma i Pink di Atom… ne slabbrano la percezione spazio-temporale. I tempi smisurati sono una loro prerogativa fin dai live degli esordi, come anche la composizione di lunghe suite (ad esempio, l’opera teatrale “The Man and The Journey” portata in tour l’anno prima), e qui non sono utilizzati per virtuosismi ma per raggiungere un’epicità ipnotica e straniante. L’unico elemento caratteristico del prog presente per la prima volta nei Pink Floyd, è quello sinfonico, affidato peraltro al compositore sperimentale Ron Geesin che trionfa nei 23 minuti della solenne titletrack, dove avanguardia e classicità, Debussy e Berlioz, la chitarra slide di Gilmour e il jazz sperimentale di Earl Hines sono arrangiati da trecento fra orchestrali e coristi per un effetto straniante, aspro e diacronico. Una rock-opera colossale dove inevitabilmente l’effervescenza di Mason cede spazio alle magnifiche ambizioni sinfoniche. Pur amato dal pubblico, verrà poi ripudiato dalla band.

Meddle – Ciò che di Atom… invece non sarà ripudiato è la forma-suite e il protagonismo del bending blues di Gilmour. I due elementi, ribaditi e incrociati nuovamente, esplodono nel cosmico Meddle (1971). L’ennesimo disco spiazzante di una band senza limiti che abbandona le magniloquenze di Atom… e vira decisamente su un blues-rock visionario più agevolmente riproponibile dal vivo, la dimensione più naturale dei Pink Floyd. Un disco che per la prima volta cerca di tenere insieme ricerca sonora e successo commerciale. Ma per raggiungere ciò ci vuole un singolo che s’inchiodi in testa, ed ecco arrivare One Of These Days, con quel tumultuoso basso di Waters (doppiato da Gilmour, che ne compone il riff inizialmente per la sua Fender) e da entrambi filtrato attraverso un italianissimo Binson Echorec, antenato del delay, che sa tanto di Justin Chancellor. È il galoppo di una costellazione che attraversa la furia del vento del Tempo.

Progressive rock d’immensa potenza atmosferica, intarsiato dai graffi slide di Gilmour, l’Hammond ambient sconcertante di Wright e lo scalciare da mulo di un Mason che presta la sua voce filtrata alla feroce frase “one of these days I’m going to cut you on little pieces” che prelude la detonazione del brano con tanto di vigoroso shuffle, fino al placarsi della furia psichedelica nell’eco del vento. Firmato da tutti e quattro i componenti, Gilmour lo definirà il brano più collaborativo della storia della band.

Meddle è comunque ricordato come il disco di Echoes, celeberrima suite di rock prog metafisico di 23 minuti. Introdotta dal ripetuto Si dello Steinway di Wright, il cui suono viene genialmente passato attraverso un vecchio Leslie che dà l’effetto di una nota suonata in qualche abisso (o di un sonar insistente), la suite è un viaggio onirico fra gli echi del nostro inconscio che riemergono dalle profondità in cui giacciono. Un epico poema sonoro che si dipana negli eroici assoli blues di Gilmour, nella poderosa sezione funky dominata da un Mason tetragonale e nella spaventosa catabasi allucinatoria di Wright sferzata dall’ululare del vento (ancora) e da stridori di corvi e altri sinistri versi… fino al risorgere del brano, con quella nota del Si che è come una goccia che torna a cadere e che introduce l’anabasi, la risalita dall’oscurità. È la chiusura del cerchio della vita, che Gilmour nel testo invita ad aprire all’empatia verso l’altro.
In Meddle si spengono gli ultimi echi della psichedelia più astratta; l’interesse per l’interiorità e il suo rapporto con l’altro prelude agli epocali The Dark Side Of The Moon (1973), Wish You Were Here (1975 ) e The Wall (1979).
Inoltre, Meddle è l’ultimo disco composto dall’intera band. Dopo sarà l’avvento degli imponenti concept album, verbosi, distopici ed esistenzialistici dominati da Waters. L’apporto e l’inventiva di Mason si ridurranno, inversamente proporzionali al successo che i Pink Floyd mieteranno, anche se qualche colpo di classe, come il rototom di Time (su The Dark Side…) o l’esuberanza live su Animals (album del 1977) sarà sempre distillato.

Live At Pompeii – Il primo atto della carriera della band si chiude suggellato da un documento di eccezionale portata culturale – Live At Pompeii – filmato nell’ottobre del 1971, poco prima che esca Meddle, giusto cinquant’anni fa, su intuizione del regista Adrian Maben.
I Pink Floyd registrano rigorosamente live per tre giorni, arrivando con tutta loro elefantiaca strumentazione, nell’anfiteatro romano deserto. Un’immagine dalla straordinaria potenza evocativa, le adunate oceaniche stile Woodstock smarrite di fronte al vuoto, al silenzio e alla fissità di Pompei che riprende vita grazie al vibrare delle note metafisiche della band britannica. Il Tempo si fa tangibile, incardinato nel mood spirituale di Nick Mason. E non è un caso che la scaletta privilegi i pezzi in cui è protagonista.

In A Saucerful Of Secrets è ubiquo, incastonando l’estasi della danza di guerra della prima parte all’incedere religioso della seconda, mentre in One Of These Days ne esalta la possenza con una solenne intro sui piatti con le mazzuole, per poi tracimare inarrestabile nella sua piena.
Se A Careful With That Axe Eugene lo arricchisce di umbratile introspezione, Set The Controls è invece letteralmente controllato dal suo febbrile crescendo voodoo, facendolo risultare addirittura ancora più mistico dell’originale (per i ristrettissimi tempi entrambi i pezzi sono registrati all’Europasonor di Parigi). Echoes è invece il momento più alto del documentario, la fotografia di una band all’apice, emblematicamente vagante fra i fumi danteschi della solfatara di Pozzuoli. La versione in studio viene letteralmente surclassata, con un Mason perfetto negli accenti durante l’assolo cosmico di Gilmour, padrone del portamento del tempo nella spettacolare sezione funky del brano ed incontenibile nel crescendo finale: il compendio live della sua semplice grandezza.

Dopo quel live, altre band suoneranno fra le rovine di Pompei, non certo vuote ma riempite di spettatori ben paganti, ma saranno scialbe vanità, repliche senza poesia: nell’immaginario di tutti i rockers, Pompei resta associata soltanto ai Pink Floyd. Una meraviglia che rende giustizia al valore di Mason, quello del 4/4 lento…

The Dark Side Of The Moon – La storia diventa mito. Nel 1972 un’altra colonna sonora per il Schroeder, questa volta per il film “La Vallée”, le cui tracce sono raccolte nello sperimentale Obscured By Clouds. La psichedelia si è ormai rarefatta, i suoni ovattati, lucidi, perfetti di The Dark Side Of The Moon proietteranno la storia dei Pink Floyd nel Mito.

Mason’s Saurceful Of Secrets Band – Quel ragazzo con i baffoni e il cappello da cowboy che dietro i tamburi suonava potente, e spirituale come un santone, oggi è un compassato signore ancora on the road con la sua Nick Mason’s Saurceful Of Secrets Band che ripropone proprio quei brani così siderali dei Pink Floyd, inventori di un suono fatto di timbriche ricercate, sfumature minimali, echi tenebrosi e rumori perturbanti. Il suono dell’inconscio, lato oscuro di libertà nel quale fugge il disagio di non appartenere a questa realtà.

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NICK MASON
Saurceful Of Secrets - la musica dei Pink Floyd degli esordi


Testo di Teri Saccone
Traduzione di Andrea Martini

Dal 2018 Nick Mason porta avanti il suo progetto che ha battezzato Saucerful Of Secrets prendendo a prestito il titolo del secondo album dei Pink Floyd (1968) e suonando con una band di amici colleghi, proprio la musica dei Floyd degli esordi.
Il progetto, il cui habitat è il palco, viene subito accolto ai quattro lati del globo: per la valenza dei musicisti coinvolti e per lo spirito libero con cui interpretano quel repertorio. Saucerful Of Secrets (SOS), infatti, non si pone come obiettivo l’esplorazione di nuovi territori, ma proprio la re-interpretazione dei brani dei primi Pink Floyd, che lo stesso Mason ha contribuito allora a trasformare in capitoli della storia.

Nella metà dei Settanta, il marchio-Pink Floyd suggella The Dark Side Of The Moon, Wish You Were Here, Animals e The Wall, portando la band britannica tra quelle di maggior successo nella storia del rock. Nonostante la gloria, i riconoscimenti e la fama, qualche anno dopo che i Floyd smettono di lavorare assieme, Mason sente la voglia di tornare sul palco; più precisamente, di tornare a suonare i brani dei Pink Floyd degli esordi. I brani più sperimentali e psichedelici, quelli con Syd Barrett su tutti a dispensare creatività e bizzarrie a profusione. “E’ interessante e completo il songwriting di Syd…” – dichiara Nick Mason dalla sua abitazione londinese – “poiché in grado di attraversare più generi, dal pop alla psichedelia. Con tale materiale a disposizione, i SOS hanno la possibilità di percorrere le strade più diverse e di dare vita alla propria interpretazione di brani tipo Scarecrow, Astronomy Domine e Interstellar Overdrive. Differentemente da quanto accadeva con i tour dei Pink Floyd della metà dei Settanta, quando i brani che portavamo sul palco dovevano rispettare le versioni su disco, con questo progetto ricerchiamo invece il fattore-live. Oltretutto, a mio giudizio, il periodo-Syd della band è stato piuttosto trascurato e sottovalutato mentre offre parecchi spunti per elaborare e sperimentare”.

Pubblicato da Legacy/Sony il 18 settembre 2020, Saucerful Of Secrets cattura l’atmosfera dei due concerti del 2019 presso la Roundhouse di Londra, in cui i SOS suonano oltre venti brani dei Pink Floyd degli esordi. Nel 1967 sono proprio i Floyd a portare il loro Piper At The Gates Of Dawn su quel palco. Tornare alla Roundhouse ti ha provocato nostalgia? “E’ un posto fantastico…” – dichiara Mason – “ma oggi è totalmente diverso rispetto agli anni Sessanta…”

E’ una delle poche venue in cui Nick Mason ha suonato da giovane ad esistere ancora. Oltretutto, sfortunatamente, ne sono state chiuse parecchie negli anni: “ed il lockdown ha reso la situazione peggiore…” – aggiunge Mason – “è terribile! I vari tour sono stati posticipati e, oltretutto, se penso all’economia dei Paesi... ma del resto, chi si aspettava una cosa del genere.

Differentemente da altre band, i SOS non provano online: “… perché ciascuno di noi conosce le proprie parti e il repertorio. Francamente, quel genere di collegamenti li trovo goffi, non è la stessa cosa che trovarsi di persona.”

Tornando al 1967 e ai leggendari EMI/Abbey Road Studios, mentre i Pink Floyd registrano Piper At The Gates Of Dawn in uno studio, in quello accanto ci sono i Beatles che registrano Sergent Pepper’s: avevate familiarizzato con loro? “Ci eravamo incontrati giù nella hall. Quindi ci avevano invitato ad ascoltare i pezzi che stavano registrando… e che noi abbiamo adorato da subito. Tornati nel nostro studio, dover ascoltato i loro pezzi, ci siamo messi a lavorare sodo sui nostri!” [ride]

Significa che i Pink Floyd erano intimoriti dai Beatles? “Eravamo sbalorditi, naturalmente. Noi eravamo degli studenti a loro confronto. La stessa cosa che ci era capitata davanti a Jimi Hendrix, quando in quello stesso anno noi aprivamo i suoi concerti…”

Piper At The Gates Of Dawn, è il solo album dei Pink Floyd con Barrett come frontman. A differenza degli album dei Settanta così amati dalla band, quelli degli esordi li hanno invece trascurati; Mason stesso ne aveva dei ricordi lontani quando ha messo in piedi i SOS. “Ricordavo i pezzi in linea generale ma certo non le parti complicate scritte da Syd…” – ammette Mason – “In tutti i casi, per me il rock’n roll ha sempre significato saper interpretare la musica e quella di Syd era perfetta allo scopo.”

Uno degli straordinari risultati dopo l’uscita di Barrett (è David Gilmour che gli subentra) è testimoniato da Live At Pompeii filmato nell’ottobre del 1971, con la band britannica che raggiunge l’apice della creatività. Il film-concerto ammalia una audience strepitosa, e pensare che invece nell’antico anfiteatro romano, mentre i Floyd suonano, il pubblico non c’è. A tutt’oggi, 50 anni dopo, sono milioni le visualizzazioni di quel film. Riguardo a cosa attribuisce la continua popolarità di quel film, Mason dichiara: “Io direi che gli spazi ampi e quel luogo così prepotentemente ricco di fascino, hanno fatto fuoriuscire tutto al meglio. C’era vento, ma avevamo registrato su un multi-traccia… credo che sia il suono di alta qualità ad attirare gli ascoltatori ancora oggi. Oltretutto, il film era stato girato su un 35mm e così le immagini appagano anche gli occhi.”

Catturato dall’atmosfera del celebre anfiteatro romano, Mason vi si immerge totalmente: “Sì, certo. Nei momenti in cui non dovevamo suonare, noi vagavamo tra le rovine; ci sono anche delle immagini nel film di noi che lo facciamo. Sì, eravamo totalmente immersi in quella atmosfera. Pensa che proprio la scorsa settimana, girando tra i canali della tv, ho visto che era in programmazione e così l’ho guardato..!” [Mentre lo dice, Nick sorride…]

Oggi Nick Mason è un appassionato pilota e collezionista di auto, ma non si sente pronto per abbandonare i tamburi: “Poco prima del lockdown eravamo in tour [si riferisce agli SOS] e suonavamo sera dopo sera, è stato un tour straordinario. Speriamo di ripartire a breve termine.”
[Il nuovo tour dei SOS è stato programmato a partire dall’aprile 2022]

Saucerful Of Secrets Band – Nick Mason (drum) – Guy Pratt (bass) – Gary Kemp (guitar) – Lee Harris (guitar) – Dom Beken (key)

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Nei primi album dei Pink Floyd, Nick Mason utilizza una Premier WMP costituita da rullante, due tom, due timpani e una cassa. A partire da Ummagumma (1969) le casse diventano due.

Nel periodo 1970-72 utilizza Ludwig, passata alla storia la sua batteria utilizzata nel Live At Pompeii! Dal 1993 è endorser DW Drums.
“Al tempo di Syd suonavo con una vecchia Premier, poi mi sono innamorato di quella Ludwig luccicante color champagne. Andammo in tour negli Stati Uniti con gli Who e vidi che anche Keith Moon utilizzava una doppia cassa. I batteristi sono così, vogliono sempre qualcosa in più con cui armeggiare. Più tom, più fill che si distribuiscono su più tonalità, più piatti… e pensare che all’inizio avevo soltanto un ride e un crash…”

Nick Mason è un endorser dei piatti (e gong) Paiste sin dal 1970. Tra i piatti che predilige attualmente vi sono i Signature Fast Crash (16” e 18”), 2oo2 Series Ride (20”), PST X Swiss Medium Crash 20”, Signature Thin China 22”, Signature Dark Crisp Hi-Hat (14”)

Acuto investitore azionario, ha saputo diversificare le proprie passioni. E’ un pilota di elicotteri, ha partecipato alla 24 Ore di Le Mans ed è un collezionista di auto storiche, fra cui l’auto più costosa al mondo: una Ferrari 250 GTO del 1962, valutata un paio di anni fa 48,4 milioni di dollari!



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