DRUM STORY la storia della batteria DrumClub Dicembre 2006

Davide Ferrante 01 dic 2006
Ha più di cento anni, ma non li dimostra. Questa è la batteria, la cui vita come strumento musicale nasce tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Con questo numero iniziamo un viaggio a puntate alla scoperta della sua storia, dei suoi protagonisti più geniali e di quelle curiosità (definizioni, aneddoti e invenzioni) che hanno reso la batteria lo strumento musicale che tutti oggi conosciamo.

Dalle origini agli anni trenta


La struttura


Il drumset, spesso denominato anche drumkit (in italiano, batteria) è un insieme di vari strumenti a percussione composto da diversi tamburi e piatti, suonati da un singolo musicista. La batteria può essere suonata con le bacchette, con le spazzole in plastica o metallo, con i mallets (battenti), con i multi rods (bacchette composte da fasci di legno) o con le mani. Basti pensare che una volta, il grande batterista jazz Bob Moses fu visto suonare con dei ramoscelli di legno raccolti poco prima del concerto!

E’ possibile arricchire il drumset con altri strumenti a percussione come campanacci e woodblocks (idiofoni a percussione) oppure con vari dispositivi elettronici, come i pads (una sorta ...
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di tamburi “virtuali”) e sintetizzatori. Differenti generi di musica e differenti batteristi usano spesso un’unica configurazione di drumset. La batteria è lo strumento a percussione più usato nel jazz e nelle forme di “popular music”, incluso il rock, il rhythm and blues, il country e la musica etnica. Andiamo ad analizzarne velocemente i componenti.

Il tipico set di batteria è composto da una grancassa, un rullante, due tom-toms, una coppia di piatti denominata charleston, un piatto crash ed un piatto ride, il tutto tenuto insieme da una serie di aste meccaniche in metallo.

Ogni tamburo possiede una coppia di pelli (rispettivamente battente e risonante) la cui tensione viene assicurata affinché ci sia un buon rimbalzo della bacchetta. La grancassa è di solito il pezzo più grande del drumset; produce un suono basso e profondo ed è suonata con un pedale preposto come un battente che colpisce la pelle mediante un’asticella in metallo, rivestita all’estremità di un corpicino (in genere sferico) di peltro.

La grancassa può avere vari diametri e profondità. Il diametro oscilla tra i 46 e i 66 cm, mentre la profondità tra i 36 e 46 cm.

Il rullante è un tamburo cilindrico poco profondo, che produce un distinto suono acuto. E’ dotato di una serie di fili metallici – la cosiddetta “cordiera” – posta sotto la pelle risonante del tamburo, che determina un suono ronzante o schioccante, secondo la tecnica usata. Le misure più comuni, per quanto riguarda il rullante, sono di 36 cm per il diametro e di 13 cm per la profondità.

I tom-toms aggiungono una varietà di suoni al set e di solito hanno un diametro che varia dai 20 ai 46 cm e una profondità variante tra i 15 e i 46 cm. Un drumset di base ha di solito due tom-toms: uno montato “a terra” con un’asta (tale tom è detto anche “timpano”) ed uno più piccolo montato sulla grancassa tramite un supporto metallico.

I tamburi


E’ bene ora dare però una definizione riguardo alla parola chiave finora utilizzata e cioè “tamburo”; quest’ultimo è da considerarsi uno strumento a percussione appartenente alla famiglia dei membranofoni: cavo e di forma tubolare, in esso il suono è prodotto, come sappiamo, percuotendo o raschiando una pelle tesa attraverso una delle due estremità del fusto.

L’origine dei tamburi che compongono il drumset è da ricercarsi nel campo dei tamburi a cornice. L’origine di essi si perde nella notte dei tempi; esiste materiale iconografico databile ad oltre 6000 anni fa che rappresenta uomini e donne mentre suonano questo tipo di strumento, soprattutto durante rituali o cerimonie religiose.

Anticamente esistevano (ma esistono ancora oggi) culture in cui il compito di suonare lo strumento era esclusivamente demandato alle donne.

In Mesopotamia, nell’Antico Egitto e nella Grecia Antica già era diffusissimo il suo uso e in India intorno al 1000 d.C. si suonavano strutture melodiche e ritmiche riprese oggi dai jazzisti.

Riguardo alle caratteristiche dei piatti, invece, c’è da dire che essi sono composti da varie combinazioni di metalli tra i quali prevalgono il rame, l’ottone e il bronzo. Il diametro di essi può essere molto variabile e si misura comunemente in pollici; le dimensioni vanno da un minimo di 6’’ (circa 15 cm, con riferimento ai cosiddetti splash) a un massimo di 24” (quasi 60 cm, come ad esempio per alcuni ride o china). All’aumentare del diametro, aumenta lo spessore del piatto e la gravità del suono. Lo spessore dello stesso, così come la sua concavità, incidono su numerose caratteristiche del suono come intonazione, tempo di decadimento, quantità di armonici, e così via.

A differenza dei tamburi che appartengono alla famiglia dei membranofoni, i piatti sono degli idiofoni (a suono indeterminato) in quanto, anziché emettere un suono per la vibrazione di una membrana tesa emettono un suono per la vibrazione del corpo stesso.

La loro origine risale al 2000 a.C. e una coppia preistorica di piatti è custodita nella mummia di un musicista religioso egiziano, al British Museum di Londra. Le forme di piatto utilizzate dai popoli nel corso della storia sono le più diverse. Gli Assiri utilizzavano sia piatti di forma concava sia piatti di forma piana, mentre i Greci costruivano piatti con la campana (uno sbalzo nel metallo che enfatizza le armoniche generate).

Per secoli i piatti sono stati utilizzati in guerra, con i soldati che facevano suonare due piatti tra loro per tentare di incutere timore nel nemico durante la battaglia. Anche nei riti religiosi venivano suonati piccoli piatti e non ne manca menzione nella Bibbia.

La costruzione dei piatti era concentrata in Cina e nel territorio dell’attuale Turchia, dove sono stati scoperti, nel corso dei secoli, i metodi per rendere questo strumento più resistente e più musicale. Nelle origini del termine cymbal (traduzione: piatto) c’è un vocabolo latino, cymbalum, che a sua volta deriva dalla parola greca kumbalom.

Esordi a New Orleans


Questo per quanto riguarda una breve cronologia dei tamburi e dei piatti ma, come sappiamo bene, la batteria è caratterizzata dalla fusione di essi in un un’unica struttura. Ebbene, l’atto di nascita di tale struttura viene comunemente collocato al cadere del diciannovesimo secolo. Fu infatti intorno al 1895 che un leggendario percussionista di New Orleans, Dee Dee Chandler, creò un rudimentale pedale in legno per colpire la grancassa.

La geniale innovazione mise per la prima volta un unico esecutore in condizione di azionare da solo quegli strumenti a percussione che nelle bande venivano affidati a tre musicisti distinti: grancassa, rullante e piatti.

Un’altra leggenda riguardo all’origine della batteria rimanda, invece, a motivi meno poetici e più pratici; pare, infatti, che l’attuale batteria sia nata esclusivamente per problemi di spazio. Sembra che, sempre a New Orleans alla fine del secolo scorso, lungo le vie ci fossero bande composte da molti elementi che suonavano per strada, in corteo, ed ogni elemento dell’attuale batteria era suonato da una singola persona, sullo stile delle fanfare militari.

In seguito, le esibizioni si sarebbero spostate dalle strade ai locali, rendendo impossibile ospitare sul palco cinque o sei musicisti impegnati con le percussioni. La trovata geniale, quindi, fu di fondere in un’unica struttura cassa e rullante. Ad ogni modo, se non si è sicuri riguardo la “paternità” della batteria da attribuire a Chandler, pare non ci siano dubbi riguardo quella dell’invenzione del pedale per la cassa.

A questa batteria primordiale, furono aggiunti in seguito i piatti, solitamente allo scopo di creare un suono acuto che si contrapponesse a quello grave dei tamburi.

Le fonti storiche ci danno un’assoluta certezza: è New Orleans con la sua relativa area geografica ad essere la culla del jazz e, quindi, uno strumento così poco “accademico” come la batteria non poteva che svilupparsi come il suddetto genere, cioè per le strade, sviluppando una meticcia fusione di culture. I musicisti afroamericani, con le loro millenarie tradizioni percussive, incontrarono i tamburi militari europei e la loro tecnica già codificata. E’ proprio alla storia del jazz che l’evoluzione di questo strumento – almeno sino agli anni sessanta – è stata indissolubilmente legata.

I primi batteristi si limitavano a svolgere una funzione metronomica, ossia di semplice marcatura dei tempi, con il rullante pronto a scandire le divisioni previste dal brano, la grancassa a segnare i quarti della misura e un piatto cinese sospeso usato per marcare gli accenti e sottolineare le frasi musicali.

Lo strumento col tempo si arricchì di nuovi accessori, quali i già citati woodblocks (idiofoni a percussione, di legno cavo, dal suono secco e penetrante), tample blocks (quattro, o sei, blocchetti di legno accordati dal grave all’acuto) e i campanacci.

Con l’avvento dello stile jazzistico, l’accompagnamento fornito dal batterista si fece sempre meno monotono e più reattivo nei confronti degli spunti ritmici suggeriti dai solisti; inoltre, si usava spesso smorzare il suono del piatto subito dopo averlo percosso e quasi tutti i pezzi si concludevano con questo accorgimento.

La migrazione dei musicisti di New Orleans verso Chicago e New York, alla fine degli anni Venti, favorì un nuovo incontro di stili differenti. I batteristi di Chicago, per esempio, che erano soliti suonare sul piatto sospeso diverse figure ritmiche per l’ accompagnamento, avevano iniziato a utilizzare la grancassa insieme agli altri tamburi anche nei fills (lanci) e in piccoli assoli, oltre ad essere già in possesso di una buona tecnica con le spazzole.

Tra i maestri che seppero meglio fondere i due stili possiamo sicuramente ricordare Warren “Baby” Dodds e Arthur “Zutty” Singleton. Negli anni Trenta il “corredo” dei batteristi si arricchì ulteriormente, quantunque gli assoli continuassero ad essere eseguiti quasi esclusivamente sul rullante, con la cassa a scandire inesorabilmente tutti i quarti della battuta. Comparirono,infatti, a piacimento, piatti turchi, campane tubolari, timpani sinfonici, gong, triangoli e, accanto ai piatti cinesi, due o più tom-toms dotati di un sistema di tensione delle pelli a vite.

L’invenzione più innovativa riguardò però l’hi-hat o charleston: una coppia di piatti turchi che erano portati a contatto o separati da un pedale a molla azionato dal piede sinistro del batterista. Inizialmente era collocato a livello del suolo, ma, intorno al 1926, Vic Berton e Kaiser Marshall, utilizzando un’asta scorrevole, poterono collocare il charleston all’altezza del rullante e mettere a punto una tecnica esecutiva che venne ripresa e utilizzata soprattutto dai batteristi delle grandi orchestre.

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