BILL BRUFORD, The Talking Drum - prima parte

Eugenio Palermo 26 nov 2022
Il ragazzino cresciuto suonando le spazzole sulle copertine rigide degli album jazz, il batterista per antonomasia del progressive, il batterista fra i primi ad introdurre i tempi dispari nel rock con gli Yes. Colui che suonava su fogli d’acciaio, piatti rotti e sperimentava ritmi e melodie con la Simmons e gli octoban, al tempo dei King Crimson. Colui che ha dato vita al supergruppo UK e ai suoi Earthworks. Introdotto nella Hall Of Fame Of Rock n Roll ma anche dottore in musica e autore di testi sulla psicologia della performance creativa del batterista. Il primo Professore nella storia del rock. Unico. Bill Bruford.

……………………………………..…………………………………………………………………

William Scott Bruford (per tutti semplicemente Bill) è uno dei batteristi più ecclettici, prolifici e creativi della storia. Un pioniere del rock/jazz, fra i primi batteristi a slegarsi dalla prigionia del backbeat a favore della poliritmia. Ma anche il batterista per antonomasia del prog, capace di griffare i due capolavori degli Yes (“Fragile”, 1971 e “Close To The Edge”, 1972), per poi mollarli sul più bello e resistere un quarto di secolo sullo sgabello dei King Crimson, oltre che a suonare in seguito con i Genesis e i Gong, dare vita al supergruppo prog UK e ...
l'articolo continua  
ai suoi innovativi Earthworks… per non contare gli innumerevoli interventi nelle vesti di sessionman. Un batterista devoto alla musica, in costante evoluzione, sempre in anticipo sui tempi, tanto da influenzare il drumming di mostri sacri come Peart, Copeland e Garrison ma anche dei vari Portnoy, Dailor e Carey. Tutto questo anche facendo scelte ardite (… non è da tutti lasciare a 23 anni gli Yes all’apice di vendite e creatività!), seguendo l’istinto e non il portafoglio.

Una personalità marcata quella di Bruford, antitetica agli eccessi puerili delle rockstar, fedele da quasi mezzo secolo a sua moglie Carolyn. Bill è come il suo drumming: colto, curioso, originale, sobrio, ironico, irrequieto. Sciorinato per quarant’anni senza una smorfia di ferocia a scomporne l’aplomb, ma con lo sguardo serafico di chi sta snocciolando un indovinello sul suo drumkit simmetrico (con il charleston davanti il rullante e due tom e due piatti per ogni lato equidistanti), suonato con quello stile meticoloso ma spontaneo, complesso ma ragionevole, che da sempre fa scuola.

Difficile dunque incasellare Bruford in un’unica definizione. Sicuramente un batterista dal pedigree di stampo jazz (che si palesa nella fusion della sua omonima band di fine anni Settanta) ma che ha ottenuto una popolarità enorme nel rock progressivo, il genere che lui stesso ha contribuito a rendere mainstream ed al quale ha impresso un’evoluzione sontuosa, ai tempi d’oro degli Yes. Ma è anche un batterista d’avanguardia, Bruford: lo testimoniano le tre successive vite dei King Crimson di Fripp, evolvendosi dapprima verso un hard grooving franto e improvvisato nel biennio 1972-74 (“Larks’ Tongue In Aspic” ne è un chiaro esempio); poi, sperimentando la novità di allora, la batteria elettronica Simmons, (mescolata con i vari rototom, octoban e dragon drums) utilizzata come ipnotica fonte ritmica e melodica nel periodo 1981-84 (cosa che fa anche con i suoi successivi Earthworks); poi ancora, accommiatandosi da Fripp con la new wave industrial-metal del bicefalo “Thrak” del 1995.

GLI ESORDI
E’ una storia che inizia a Sevenoaks, un piccolo sobborgo del Kent (“il giardino d’Inghilterra”): neanche ventimila anime a sud-est di Londra, là dove John Donne scrisse “No Man’s Island” e H.G. Wells “La Guerra Dei Mondi”, là dove vissero anche Jane Austen e Charles Dickens.
William Scott Bruford nasce qui, il 17 maggio del 1949, ultimo di tre figli di un veterinario e di una casalinga, in una tradizionale famiglia della classe media post-bellica britannica.

Bill ha davanti un futuro da colletto bianco, ma a rovinare i piani dei genitori ci pensa la BBC che, nel 1960, trasmette jazz americano. Bill rimane folgorato a tal punto che sua sorella gli regala un paio di spazzole e con esse inizia ad accennare ritmi bebop sulle copertine rigide dei dischi, in attesa di un rullante vero. La febbre sale con le lezioni di Lou Pocock, musicista della Royal Philharmonic Orchestra, e prosegue quando Bill entra nella prestigiosa Tonbridge School, dove un compagno di classe batterista gli presta “The Moeller Technique”, il metodo d’improvvisazione jazz scritto dal leggendario Jim Chapin. I Beatles certo, ma il cuore di Bill si entusiasma per i batteristi jazz… Max Roach, Art Blakey, Joe Morello, Tony Williams ed Elvin Jones. Poi arriva il colpo di fulmine con il jazz maiuscolo della Graham Bond Organization che lo fa scivolare verso l’inimitabile Ginger Baker e il rock. Infine, il suo primo kit a quattro pezzi, una Premier Olympic, e la decisione tranchant di fare il professionista nella vicina Londra, epicentro di tutto: blues, beat, psichedelia.
Il suo primo impegno di batterista (1968) è con i Noise che lo assoldano per un ingaggio di sei settimane al Piper di Roma, ma è un’esperienza così fallimentare che il 19enne Bruford decide di rientrare in anticipo a Londra in autostop. Giusto il tempo di raccogliere le idee e mettere un annuncio su Melody Maker per cercare un ingaggio da batterista.

YES – 1968
All’annuncio su Melody Maker rispondono Chris Squire e Jon Anderson dei psichedelici Mabel Greer’s Toyshop, in quel momento alla ricerca di un batterista, e lo invitano a suonare in una gig. Bruford fulmina tutti con il suo swing fantasioso e leggero ma anche con il suo approccio ai tamburi e il suo disdegno per Keith Moon (…e pensare che gli Who sono allora il gruppo preferito di Squire!) Lo stesso Bill è impressionato dalle armonie vocali di Anderson e Squire, un habitat che lo solletica parecchio. La lineup definitiva si compone quando arriva Tony Kaye alle tastiere, mentre Clive Bayley (chitarra) cede il passo a Peter Banks. La band ora è al completo e ha un nome nuovo: Yes. La loro storia ha inizio. E’ il giugno del 1968.

I cinque Yes vivono insieme nell’area nord londinese, pronti a saltare giù dal divano appena telefoni qualcuno per qualche ingaggio. La loro preparazione tecnica è eccezionale ma non è che la concorrenza faccia schifo: Pink Floyd, Genesis, King Crimson, Caravan, Soft Machine, Colosseum, Procul Harum, solo per rimanere nel prog che a Londra impazza sciamando dalle contee limitrofe.

Tutto quel fermento rivoluzionario era nato dai Beatles, naturalmente, che avevano dimostrato che si poteva fare tutto. “Sgt Peppers” poi, aveva dilatato gli orizzonti artistici del rock aprendo all’affermazione dell’album a danno del singolo. Il progresso tecnologico, inoltre, aveva fornito una gamma infinita di opzioni (registrare venti minuti di musica su ciascun lato del disco, produzioni stereo, editing del nastro, registrazioni a 24 piste, i primi sintetizzatori) che urlavano semplicemente a rinnovare il rock a matrice R&B, fino a distaccarsene, guardando ad altri e disparati ambiti colti (jazz, classica) e sperimentali (la musica contemporanea di Schauffer o le sperimentazioni di Stockhausen).

KING CRIMSON – 1969
Il nascente progressive rock trova dunque in questi elementi le sue condizioni costitutive e, mentre l’area a sud-est di Londra è la sua terra d’elezione e gli studenti d’arte della classe media i suoi primi esponenti, l’incipiente temperie heavy metal trova nelle periferie industriali e nel proletariato operaio delle West Midlands il suo ribollente brodo di coltura. Le tastiere sinfoniche dei Nice di Keith Emerson, il mellotron dei Moody Blues, le orchestrazioni dei Procul Harum, ma anche l’impatto dirompente della collisione fra jazz e rock di Miles Davis e Tony Williams, sono solo i cupi rombi di tuono prima della tempesta del 10 ottobre del 1969: la data di pubblicazione di “In The Court Of The Crimson King”, il debutto del quintetto prog che sfodera Robert Fripp alla chitarra, Greg Lake a voce e basso, Ian McDonald ai fiati, Michael Giles alla batteria ed il poeta/songwriter Peter Sinfield.

“21 Century Schizoid Man” (la traccia che apre “In The Court Of The Crimson King”) è il big-bang del prog, la scioccante dimostrazione che il rock potesse richiamarsi alla ragione e non solo ai muscoli, come allora sostiene ereticamente Robert Fripp (l’antitesi razionale e rivoluzionaria della rockstar), e sbalordire per tecnica, controllo degli strumenti e coesione esecutiva. Quel disco non può che avere quella copertina: quel volto trasfigurato dal panico è l’urlo di Munch del rock, la disperazione del pingue, schizoide, uomo borghese in crisi di mezza età, di fronte al vuoto delle sue velleità e ipocrisie.
Quella copertina esistenzialista, quel fragore metallico e sinfonico, fanno letteralmente girare la testa al giovane Bill, il quale, a metà del 1969, di ritorno da una serata con la band, scopre casualmente i Crimson che suonano proprio nel covo degli Yes, lo Speakeasy: che diavolo è quella roba? A parte i Beatles, chi mai era riuscito a saldare assieme un territorio così ampio di temi, trame, fonti musicali e letterarie in una forma così complessa e tecnica? Quel lampo di luce lunare s’insinua nel cervello del giovane Bill: quei ragazzi sapevano qualcosa che lui non sapeva e qualunque cosa sapessero voleva saperla anche lui. Prima o poi.

YES – 1971, 1972
Le cose con gli Yes non ingranano e la band è alla fame. Ci vogliono un paio di album flop per mettere a fuoco sound e formazione. Bill sorprende tutti inserendo tempi dispari in quello che è un gruppo vocale pop dall’enfasi rock e dalle ambizioni sinfoniche, ma è solo con gli ingressi del fenomenale Steve Howe prima, e del classicissimo Rick Wakeman (ex-Bowie) poi, che la band decolla.
Gli Yes piazzano così un uno-due da sogno che consegna al movimento progressive il mainstream discografico. “Fragile” (1971) e “Close To The Edge” (1972) sono un trionfo insuperato di tecnica sopraffina e melodie vocali da k.o., una felicissima sintesi di Beach Boys e Sibelius, Beatles e Bernstein, operata da musicisti stratosferici. Certo, l’amalgama è precaria se non nulla. Troppi galli impettiti in un pollaio sempre più stretto man mano che piovono le royalties e troppo diversi per estrazione sociale, geografica e musicale per sopportarsi a lungo, tanto che le discussioni si concludono spesso con allegre scazzottate.
La diarchia Anderson-Squire è ferrea nel serrare le fila e, soprattutto con quest’ultimo, Bruford ha una dialettica ruspante. Entrambi, del resto rivoluzionano l’approccio al proprio strumento, concepito ora come libero di prendersi il suo spazio, di interagire con gli altri colleghi, di ideare soluzioni e non più semplicemente di portare il tempo, come il rock blues soleva imporre. Quando però i protagonismi smettono di beccarsi e si incastrano è pura magia…

Il possente e ronzante Rickenbacker 4001 di Squire, suonato nei registri alti e sparato in due amplificatori diversi (le frequenze basse in un ampli per basso, quelle alte in uno per chitarra) è un uragano travolgente, amplificato dagli elastici pattern fusion e dagli up-tempo sorprendenti di Bruford; la sezione ritmica Squire/Bruford si attesta fra le più esaltanti della storia del rock. L’irrefrenabile funky prog di “Roundabout” e i vertiginosi duelli strumentali di “Heart Of The Sunrise” (i due gioielli di “Fragile” del 1971) lo provano appieno.

Se “Roundabout” sarà il singolo trainante dell’album e renderà celebre il cosiddetto Bill’s Bonk, ovvero l’inconfondibile colpo di rullante di Bruford, secco ed incisivo, dal canto suo “Heart Of The Sunrise” (che chiude “Fragile” ma che già preannuncia la lunga omonima suite di “Close To The Edge”) vede un Bruford sciorinare una varietà spettacolare di paradiddle e sestine, grazie a cui il suo drumming riesce a brillare di luce propria in un episodio di per sé abbagliante. E’ una tecnica che Bruford affina non per l’esigenza di stupire ma di trovare soluzioni alternative. E di evolvere, sempre. Il suo caratteristico rullante, ad esempio, nasce dalla necessità di non essere uno strumento comprimario, ma di competere con gli amplificatori sempre più potenti dei suoi funambolici sodali; Bill non è né ipercinetico o muscolare e perché il suono del suo rullante abbia una maggiore risonanza e proiezione, escogita di assestare il colpo della bacchetta in quel punto della pelle a metà strada tra il centro e il bordo. Il resto lo fa un mixing il più naturale possibile, che consenta a quelle armoniche di essere assorbite dagli altri strumenti, e giungere pertanto a un sound più vivace ed organico.

L’anno successivo, 1972, i tre brani maestosi che compongono la scaletta di “Close To The Edge” (… con la celeberrima intro della titletrack che è un autentico rompicapo ritmico) spostano l’asticella così in alto che Bruford riterrà impossibile farli evolvere e dunque destinati a ripetersi. È l’ora di levare le tende. È l’ora del Re Cremisi.

[continua…]
Il 24 dicembre sarà pubblicata la seconda e ultima parte dell'articolo.
Registrati gratuitamente al portale - www.drumclubmagazine.com

© 2016 Il Volo Srl Editore - All rights reserved - Reg. Trib. n. 115 del 22.02.1988 - P.Iva 01780160154