Sullo sgabello dei Marillion sin dal 1984, Ian Mosley è il porto sicuro per l’approdo della popolare prog rock britannica che ha saputo guadagnarsi spesso ambite posizioni nelle chart. An Hour Before It’s Dark è il loro ultimo album, il ventesimo, ed ora la band è pronta per il tour in partenza questo mese.
Drumming roboante, assoli da cardiopalma e scenografie accecanti, non sono certo i paradigmi a cui ambisce Ian Mosley; viceversa, ama privilegiare precisione, affidabilità, groove, interplay ed il concetto del suonare al servizio dei brani; doti che, puntualmente, vanno a caratterizzare la stessa musica dei Marillion. Naturalmente, tutto questo succede anche in An Hour Before It’s Dark (earMusic), l’ultimo dei Marillion, il 20esimo di una carriera che di hit e successi ne ha visti tanti.
Quella di Ian Mosley con i Marillion è una lunga storia che ha inizio quando il batterista britannico (classe 1953) entra nella band in pianta stabile registrando Fugazi, il loro secondo capitolo discografico uscito nel 1984. E’ l’era di Fish (il carismatico vocalist rimasto in formazione sino al 1988 a cui subentra Steve Hogarth nel 1989) ed è grazie a quell’album e al successivo capolavoro del neoprog, Misplaced Childhood (1985), che
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i Marillion conquistano il pubblico mainstream piazzando nelle classifiche più una hit: Kayleigh, giusto per fare un esempio.
Uscito l’11 marzo 2022, "An Hour Before It’s Dark" si posiziona ben presto al secondo posto della Albums-Chart britannica, mentre la band è pronta per il tour europeo in partenza il 18 settembre 2022. Abbiamo incontrato Ian Mosley e chiacchierato con lui dei Marillion, del nuovo album e, naturalmente, del suo concetto di drumming.
Marillion 2022 – Steve Hogarth (voce) – Ian Mosley (batteria) – Pete Trewavas (basso) – Steve Rothery (chitarra) – Mark Kelly (tastiere)
Ciao Ian, partiamo dal nuovo album dei Marillion, An Hour Before It’s Dark, e dal primo singolo che avete pubblicato, quel Be Hard On Yourself, caratterizzato da un gran lavoro dietro i tamburi: ce ne parli? I brani, o comunque l’approccio alla composizione dei Marillion, nasce in gran parte dalle jam nel nostro studio di registrazione. Negli ultimi anni non abbiamo fatto altro che ritrovarci e jammare, registrando tutto e mettendo da parte ogni buona idea; abbiamo sottoposto tutto al nostro produttore [Michael Hunter] e quindi selezionato dieci spunti su cui metterci a lavorare. Il primo su cui abbiamo messo mano è Be Hard On Yourself, che poi è stato il primo singolo a lanciare l’album. Un lavoro che, ti confesso, non è stato così semplice da gestire.
Ti riferisci allo stop forzato della pandemia? Esatto, a cominciare dal fatto di aver dovuto mettere il nostro studio in modalità sicurezza-da-Covid. Ma non solo. Nei primi due mesi Steve [Rothery], decisamente preoccupato dalla pandemia, ha deciso di restare a casa, quindi noi gli inviavamo dallo studio i vari spunti venuti fuori man mano. Lui ci lavorava sopra e ce li rimandava. Soltanto in un momento successivo ci siamo ritrovati tutti. In pratica, in quel periodo abbiamo vissuto in una sorta di bolla sospesa nell’aria.
Gli inconvenienti dati dalla pandemia, però, non sono finiti qui… Esatto. Il momento cruciale ha riguardato il nostro tour britannico di qualche mese fa. Stavamo per iniziare le prove quando, nove giorni prima del primo concerto, Mark [Kelly] è risultato positivo al Covid; in pratica, non abbiamo fatto alcuna prova per quel tour e siamo saliti sul palco… così, all’impronta. Non è stato semplice per tutti noi impararsi le parti senza poterle provare insieme. In particolare, riguardo alle mie parti, ci sono diversi pezzi ricchi di dinamiche, con un sacco di accenti e fill da mettere al posto giusto; è stata proprio una sfida.
Avete registrato "An Hour Before It’s Dark" ai Real World Studios, cosa che avevate fatto anche per F.E.A.R. (2016) e per altri album precedenti: un ambiente che, si sa, gradite in particolar modo… Come ti dicevo, fortunatamente noi abbiamo il nostro studio, The Racket Club, ed è lì che lavoriamo per gran parte del tempo. Per quanto riguarda il nuovo album, registrazioni ed arrangiamenti sono nati lì, dopo di ciò, abbiamo deciso di andare ai Real World, giusto per vedere se fossimo riusciti a fare le cose ancora meglio. Viceversa, non sarebbe stato un problema visto che, appunto, gran parte del lavoro lo avevamo già fatto da noi. La cosa fantastica quando sei ai Real World Studios è che lì non hai distrazioni e ti ritrovi soltanto con la tua band e il produttore, 24 ore al giorno a contatto con la musica, totalmente concentrati. Si comincia alle 10 del mattino, poi un break per il pranzo e poi si riprende per tutto il pomeriggio, dunque un break per la cena, quindi si rientra in studio per delle brevi jam o per un nuovo ascolto di certe cose. Lavorando nel nostro studio, invece, proprio perché sempre a nostra disposizione, i ritmi sono diversi poiché si cerca dare spazio anche ai vari impegni personali; c’è sempre qualcuno che deve andare a recuperare i figli, a dare da mangiare al gatto o a portare il cane fuori per la passeggiata… Prenotare i Real World, significa per noi riservare del tempo soltanto alla band e alla nostra musica.
In quegli studi avete anche realizzato il video del making-of dell’album, aggiungendo una live performance di Murder Machines, il secondo singolo: come mai questa scelta? Semplicemente perché stato uno dei brani che ci ha entusiasmato sin dal primo momento. Steve [Hogarth] ha filmato ogni cosa facessimo nel corso delle registrazioni, sia nel nostro studio che ai Real World Studios, ed io trovo che filmare il più possibile sia fantastico, significa fermare quell’attimo che non potrà accadere in un secondo momento.
Che genere di strumenti hai utilizzato per registrare l’album? In quanto alla batteria, di recente sono passato a British Drum Co; ho visitato la fabbrica e notato con quale passione e perizia gli artigiani costruiscono questi strumenti. Ho utilizzato quindi un kit Legacy Series dal suono fantastico, in grado di soddisfare ogni mia esigenza timbrico/espressiva. Anche la finitura dei tamburi è straordinaria: scura e capace di assorbire la luce restituendo effetti alla stregua di un ologramma. In quanto ai piatti, si tratta dei miei fedeli Zildjian, un mix di A, Z e Custom Series. Da poco, infine, ho anche un nuovo sistema a rack Gibraltar, visto che quello di prima era davvero troppo usato! [ride]
Nei vostri album più recenti, fughe e tappeti di tastiere tendono a guidare, a differenza del passato in cui erano le chitarre a farlo: questo influenza il tuo drumming in qualche modo? Nel nuovo album la chitarra di Steve [Rothery] è molto presente, ma anche le tastiere di Mark [Kelly] non sono da meno. Lui è sempre stato un musicista brillante, un po’ matto, ma molto intelligente. [ride] Per quanto mi riguarda, amo suonare sulle melodie e se esse arrivano da chitarra, tastiere o voce, per me non fa differenza: ne sono appagato e così anche il mio playing dietro i tamburi.
Tra gli elementi che ti descrivono meglio come batterista, c’è il fatto che concepisci il tuo drumming al servizio del brano che suoni: è stata una attitudine che hai sviluppato sin da giovane? Quando avevo 17-18 anni, pensavo all’essere super-veloce; sai, a quell’età, vuoi soltanto farti vedere... Col passare del tempo mi sono reso conto che il mio compito era quello di accompagnare, ritagliandomi però dei veri e propri momenti solistici. Dopodiché ho intuito che la cosa più bella è sedermi alla batteria e guardare la musica che suono come se guardassi un quadro dall’esterno, aggiungendoci giusto quel che occorre perché sia completo. La musica deve essere ben armonizzata nel suo insieme. Questo è il ruolo del batterista, a mio avviso. E’ grandioso quando definiscono brillante il batterista di una band, ma a mio avviso è il massimo quando dicono che è la band a brillare!
Come si è articolata la tua formazione dietro i tamburi? Ho cominciato a prendere lezioni di batteria seriamente sugli 11 anni e ho passato una valanga di tempo a studiare e praticare i rudimenti necessari a sviluppare un drumming corretto e un suono pulito, finalizzati al poter suonare di tutto con relax.
Anche oggi non hai abbandonato lo studio, giusto? Un musicista non smette mai di imparare. Sono fortunato ad avere un kit montato in maniera permanente nel nostro studio e così ogni giorno mi metto a studiare e sperimentare dietro i tamburi.
Hai detto spesso che è il jazz ad averti fornito spunti e stimoli, confermi? Sui 17 anni i miei idoli erano i batteristi delle big band americane. Buddy Rich per primo. Ai tempi della scuola il jazz era una materia di studio ed inoltre suonavo proprio in una jazz band. Negli anni Settanta il jazz e il rock hanno preso a mescolarsi ed originare la cosiddetta fusion e per me è stato entusiasmante ascoltare Chick Corea Band, Return To Forever, la Mahavishnu Orchestra con Billy Cobham e quant’altro. Più tardi ho scoperto habitat decisamente diversi, come i Pink Floyd, che peraltro ascoltavo tantissimo all’epoca in cui sono entrato nei Marillion. Mettici che prima dei Marillion ero stato nella Steve Hackett Band e, di conseguenza, l’ascolto dei Genesis mi aveva coinvolto parecchio. Alcuni dei batteristi di queste band leggendarie stanno suonando ancora, talvolta inseriti in lineup di musicisti giovani, e lo trovo entusiasmante. A proposito di band giovani, ci tengo a citare i Leprous, a mio avviso Baard Kolstad [batterista] è semplicemente grandioso.
Dopo tanti anni di carriera, cos’è che oggi ti dà motivazioni ed entusiasmo? Suonare. Suonare tutti assieme davanti al nostro pubblico. E ti confesso che è il fatto che andiamo d’accordissimo, la chiave del tutto!