Tony Platt, in studio con gli AC/DC

Steve Rosen 25 gen 2019
Anno 1980. Quando Tony Platt entra in studio insieme a Mutt Lange e vi resta per sette settimane tra aprile e maggio, probabilmente non immagina che "Back In Black" – l’album degli AC/DC su cui stanno lavorando – sarebbe diventato uno di quelli più importanti e venduti della storia del rock...

E’ il 1980 quando Tony Platt si trova alle Bahamas, nei Compass Point Studios, per registrare l'allora nuovo lavoro degli AC/DC: quello che avrebbero titolato Back In Black, che ha venduto qualcosa come 50 milioni di copie e si è piazzato secondo tra i dischi più venduti della storia della discografia mondiale...

Ultimate le registrazioni, Platt e Lange portano l’album negli uffici della Atlantic Records di New York dove li attende un team di esperti di marketing e discografia. “Entrammo negli uffici e ci trovammo circondati da esperti della discografia e marketing. Mi aspettavo salti di gioia e capelli strappati dopo l’ascolto del disco, e invece nessuno sembrava avere il coraggio di parlare per primo; si guardavano in faccia e stavano zitti. Poi, un tizio si sbilanciò e disse che You Shook Me All Night Long era abbastanza buono come singolo. Un suo collega lo fulminò ...
l'articolo continua  

info intervista

AC/DC
Tony Platt Producer
dicendo che a suo parere, invece, non andava affatto bene come hit! [ride] Beh... da quel giorno, la mia fiducia e ammirazione per gli addetti del marketing, è finita nel cesso!”

Di esperienze, Tony Platt, ne ha vissute parecchie e di artisti ne ha seguiti tanti, tra cui Free, Traffic, Bob Marley & The Wailers e, ultimamente, Iron Maiden, Cult, Buddy Guy e Motorhead. Nell' intervista che segue, il leggendario produttore britannico ci parla della sua vita spesa in studio…

Agli inizi della tua carriera, seguivi le band e ti occupavi della loro strumentazione, è corretto?
No, in realtà ero il ragazzo del tè nei Trident Studios. Portavo da bere a chi lavorava... erano gli inizi dei Settanta. Nel periodo del liceo suonavo in una giovane rock band: ero un pessimo batterista, ma avevo un furgone con cui potevamo spostarci e la cosa mi rendeva un batterista alquanto appetibile.

Nel senso che chi possedeva un mezzo di trasporto spazioso, entrava di diritto in una band…
Esattamente! [ride] Poco dopo ho iniziato a lavorare nello studio, ma non avevo idea di dove sarei voluto arrivare. Ho iniziato forse un po’ per caso.

…tuttavia, avevi in mente che avresti voluto lavorare nel mondo della musica, vero?
Sì, il mio obiettivo era quello. Ricordo che a scuola mi piaceva prendermi cura del palco, delle recite scolastiche, e cose così e infatti, di solito ero l’addetto alle luci e al palcoscenico... ero bravo a far quadrare le cose. Non sono mai stato un ragazzino passivo, avevo voglia di imparare e di mettermi alla prova. Inoltre, ascoltavo un sacco di dischi insieme ai miei amici, per ore e ore, senza sosta…

Che dischi ascoltavate?
Bluesbreakers with Eric Clapton di John Mayall, i Ten Years After e tanto blues americano. Oltre che Cream, Pink Floyd e gli Stones. Era un periodo d’oro per la musica…

Che atmosfera c’era nei Trident Studios in quegli anni?
Giravano i vari Elton John, Genesis, Dr. John e David Bowie. Era il periodo in cui tutti questi grandi artisti stavano per decollare, dunque non ancora famosissimi, eppure ho avuto modo di vederli passare nei corridoi e di essere presente alla registrazione di alcuni loro brani. In quegli anni persino i Beatles avevano registrato lì qualcosa di Let It Be. Rimasi in quegli studi poco tempo, poiché trovai un annuncio degli Island Studios: cercavano un addetto ai nastri (alle bobine). Sebbene non avessi tanta esperienza, decisi di tentare lo stesso. Mi recai in Basing Street e fu amore a prima vista! In quel posto ruotavano le band che adoravo: Free, Spooky Tooth, Rolling Stones, Led Zeppelin, The Who e Stephen Still. Era un ambiente che mi stimolava tantissimo, dove avevo l’opportunità di stare a stretto contatto con produttori ed engineer di fama internazionale.

Eri in studio quando Free, Rolling Stones e Led Zeppelin, registravano i loro capolavori?
Ebbene, sì. Cominciai a lavorare negli Island Studios appena dopo l’uscita di All Right Now dei Free e ho avuto modo di lavorare come ingegnere di studio per il loro Kossoff, Kirke, Tetsu and Rabbit. In quegli anni, ho lavorato anche con i Peace, ossia la band di Paul Rodgers, e i Toby, la formazione di Andy Fraser. Poi c’erano anche artisti solisti, come John Martyn e Simon Kirke.

Hai lavorato anche con i Traffic?
Anche loro registravano lì: io ho preso parte ad alcune loro session di The Low Spark of High Heeled Boys.

Hai detto che negli Island Studios eri circondato da produttori di gran fama: inclusi Glyn e Andy Johns? E, nel caso, cosa ha significato per te vederli al lavoro da vicino?
Esatto, mi riferivo a nomi di quel calibro. Sai, spesso penso a quanto sia stato fortunato a poter crescere accanto a produttori così in gamba e vederli lavorare così da vicino. Ho potuto carpire i loro segreti, la grande tecnica e perizia che mettevano nel realizzare i dischi. Un luogo fantastico in cui imparare...

Secondo te, perché i dischi realizzati da ingegneri e produttori britannici suonano così diversi rispetto ai dischi americani?
La cosa buffa è che in quegli anni i produttori inglesi dicevano che gli americani erano i migliori e viceversa. Tuttavia, per tornare alla tua domanda, io credo fosse una questione legata alla strumentazione. Agli Island utilizzavamo un Helios, un banco molto semplice e basilare che ci spingeva a diventare sempre più creativi, capisci? La maggior parte delle volte adottavamo quella che viene chiamata equalizzazione negativa: ovvero, eliminare quel che non volevi e spingere il livello al massimo. Le frequenze alte della console arrivavano a 10k e più di così non potevi andare, mentre le basse si muovevano dai 50 ai 60 Hertz. Le frequenze alte delle console americane partivano da 12k e le basse si aggiravano sui 100 Hertz.

Una grossa differenza, giusto?
Il classico British Sound è molto più caldo, ricco di basse e con le alte aperte. Quello americano ha le alte più brillanti e le basse un po’ meno profonde. Anche le radio hanno avuto la loro importanza riguardo ai suoni. Nel Regno Unito ci sono state le radio AM per lunghissimo tempo, mentre negli altri Paesi spopolavano le FM, con un range di frequenze molto più ampio. Noi mixavamo i dischi sapendo che sarebbero stati trasmessi dalle radio AM, mono: negli Stati Uniti mixavano i dischi sapendo che sarebbero stati trasmessi dalle radio FM. Per questo ti dicevo che noi dovevamo sfruttare al massimo la nostra creatività!

Prima hai detto che sei cresciuto a pane e blues: era stato strano per te registrare Catch A Fire di Bob Marley &The Wailers, nel 1973?
No, non direi. Il reggae era un genere che orbitava parecchio negli Island Studios. Avevo già avuto a che fare con sonorità simili con Johnny Nash e Harry J All Stars. Chris Blackwell [proprietario degli Island Studios] voleva portare il reggae nelle radio perché voleva farlo conoscere alla nuova generazione e così aveva pensato di produrre quel disco. Mi aveva lasciato carta bianca ed io sono stato felicissimo di poter fondere la mia esperienza con la musica rock col reggae. Infatti, avevo chiamato Wayne Perkins e Rabbit per registrare Catch A Fire, due rocker, inseriti in un genere totalmente diverso. Era stato interessante quel lavoro in studio: allora non conoscevo ancora bene il personaggio Bob Marley, dunque era tutto un esperimento. I nastri arrivavano direttamente dalla Giamaica e noi ingaggiavamo i vari musicisti che avrebbero preso parte al progetto. Era stata una cosa nuova e mi aveva permesso di lanciarmi e sperimentare.

Invece, quando hai mixato Highway To Hell (1979) conoscevi bene gli AC/DC?
In verità, no. Ricordo che un paio di settimane prima dell’ingaggio, ero a casa del mio amico Mark Gooding e stavamo ascoltando un po’ di musica... A un certo punto mi aveva detto: “conosci questa punk band dell’Australia? Si chiamano AC/DC, sono molto bravi!” Mi fece ascoltare qualcosa e ne rimasi colpito da subito.

…quella è stata la prima volta in cui hai sentito un pezzo degli AC/DC?
Ebbene, sì. Poco tempo dopo, il mio grandissimo amico Adam Sieff, mi aveva raccomandato a Mutt, il quale era alla ricerca di qualcuno in grado di dare un tocco british alla musica degli AC/DC... un sapore che potesse ricordare i Free.

… e così avevi avuto l’ingaggio per quell'album?
Proprio così. Il lavoro di Mutt in Highway To Hell rappresentava già di per sé un cambio di rotta per la musica della band, dunque non era stato difficile mixare i brani; non era stato arduo capire quali fossero le intenzioni. Lange aveva registrato i brani ai Roundhouse Studios, un luogo che sembrava abbandonato da secoli, ma l'ideale per trovare il sound che stava cercando lui. Il fatto di fare i mixaggi in Basing Street, era stata un’ottima trovata, perché in quelle sale avevano registrato appunto i Free e i Traffic, dunque partivamo con la giusta atmosfera...

Che esperienza è stata sedersi accanto a Matt Lange per un disco come Back in Black?
Avevo conosciuto Matt diversi anni prima, quando era il produttore della Polygram di Londra e stava lavorando con una band chiamata Red Hot; dunque avevo già avuto modo di intuire quale fosse il suo approccio in studio. È un vero professionista ed è molto preciso. L’esperienza al suo fianco è stata molto impegnativa, stimolante e divertente; è stato molto naturale trovare l’intesa con lui. Per Matt, l’artista è al centro dell’universo e tutto lo staff dello studio deve orbitare attorno a lui cercando di offrirgli ciò di cui necessità per esprimere al meglio il suo talento. Mi ha sempre detto di non scordamelo mai, di farne tesoro... e aveva ragione! Per farti capire che tipo di persona è Matt, ti racconto un aneddoto: stavamo curando la produzione di una band inglese che voleva essere la versione britannica dei Mr. Big... ricordo che il cantante si chiamava Dicken. Eravamo seduti in sala da ore perché il bassista non riusciva ad entrare nel pezzo ed era in difficoltà con un riff. Io sapevo che Matt è oltretutto un ottimo bassista e così gli dissi: “dai, prendi il basso e suonalo tu, almeno possiamo andare avanti con il lavoro. A te uscirebbe in meno di venti secondi…” Ma lui mi aveva risposto: “è vero, quel pezzo è piuttosto semplice e potrei suonarlo io, ma mettiti nei panni del bassista. Come ti sentiresti tu? Ucciderei il suo orgoglio e io non sono qui per questo...” Ecco che persona è Matt Lange. Un uomo profondo e sensibile, grandioso!

Quando avete registrato Back In Black, Brian Johnson era da poco salito sulla nave degli AC/DC... dopo la scomparsa di Bon Scott. Ricordi che atmosfera c’era in quel periodo?
Beh, eravamo tutti scossi dalla morte di Bon. Tuttavia la band si era tirata su le maniche e deciso di puntare tutto su Brian. Ricordo che era molto, ma molto, agitato: conosceva benissimo quanta pressione c’era su di lui. Però la band e tutta la crew lo aveva fatto sentire subito parte della famiglia e Brian era stato grandioso e apprezzato da tutti quanti.

Con gli Iron Maiden hai registrato Phantom Of The Opera, giusto?
Inizialmente era stato affidato ad un altro produttore, Martin Birch: il quale, visti gli impegni con i Whitesnake, aveva dovuto rinunciare. A quel punto, Ralph Simon [uno dei proprietari della Zomba Co.] aveva pensato di propormi quel disco e la mia risposta era stata subito affermativa!.

È stato difficile lavorare con gli Iron Maiden?
È stato difficile, sì. Quella musica era molto distante dal mio mondo; i Maiden erano una novità spiazzante per me: si volava a velocità folli. Il mio obiettivo sarebbe stato quello di riuscire a far cantare a Paul DiAnno note più alte, ma la sua estensione non glielo consentiva ed io ripetevo a me stesso che avrebbero avuto bisogno di un cantante come Bruce Dickinson. Diciamo che ci avevo visto lontano…

Cambiamo registro. Hai prodotto Damn Right, I’ve Got the Blues di Buddy Guy (1991) che ha vinto un Grammy come miglior album blues contemporaneo…
È stato fantastico. Stavo producendo un disco degli Alarm insieme ad un mio caro amico degli Island Studios, John Porter, ovvero il bassista dei Roxy Music. Siamo riusciti a produrre una grande hit per loro, Rain In The Summertime, dopodiché ci siamo legati alla Siren Records che faceva parte della Virgin, per seguire un gruppo irlandese, i Light A Big Fire. Alla fine, sfortunatamente, il progetto non era andato a buon fine perché la band aveva licenziato il cantante tre giorni prima degli inizi del lavoro.

Dunque stavi iniziando una collaborazione con John Porter?
Ricordo che un giorno John, mi disse: “Ma tu lo sai che Buddy [Guy] non ha un contratto discografico?” Risposi: “stai scherzando, vero?” Volevamo risolvere a tutti i costi quella situazione, dunque Peter contattò Eric Clapton con cui aveva suonato in passato e gli spiegò la situazione di Buddy. Eric disse che avrebbe voluto mettere in piedi una sua etichetta discografica e, a quel punto, inserire anche Buddy…

Poi l’etichetta ha preso vita?
No, rimase solo un’idea. Tuttavia, in quel periodo, Andrew Lauder era il proprietario della Silverstone e John [Porter] gli disse che Buddy Guy era senza un contratto. Andrew rispose subito: “ma stiamo scherzando? Beh, ora ce l’ha!” Poco dopo entrammo in studio per registrare il suo disco.

Ti sei divertito a realizzare quell’album?
È stato probabilmente uno dei dischi più belli che io abbia mai registrato. Alla batteria c’era Richie Hayward, il batterista dei Little Feat: vederlo suonare ti levava il fiato! Anche Alan Spenner della Grease Band era in studio con noi, così come Pete Wingfield e The Memphis Horns. Un disco eccezionale…

Ti è piaciuto lavorare sul disco dei Motorhead, Another Perfect Day?
Mi sono divertito un mondo, perché Lemmy è simpaticissimo e ha il dono della scrittura. C’era un’atmosfera totalmente diversa rispetto a quella che si viveva con gli Iron Maiden. Lemmy ha un senso dell’umorismo molto spiccato, è una persona accomodante e lavorare con Brian Robertson [chitarrista della band] è stato meraviglioso e stimolante.

È stato un disco difficile da realizzare?
Beh, diciamo che quando vai a curare la produzione di una band che ha milioni di fan in tutto il mondo, non è semplice. Devi sapere da subito che dovrai accontentare sia la band che il suo pubblico; non devi deludere nessuno e non è una cosa semplice. Quando ascoltai la band all’Hammersmith Odeon, ebbi una illuminazione. Mi accorsi che non venivano sfruttate appieno le capacità di armonizzare di Lemmy, dunque mi segnai mentalmente quali migliorie avrei potuto apportare la sound dei Motorhead. Conoscevo l'abilita' di Brian alla chitarra e quella di Phil Taylor dietro i tamburi (a mio avviso, uno dei batteristi più sottovalutati della storia...) dunque ero piuttosto sicuro di ciò che avremmo potuto fare assieme. Phil, in qualche modo, mi ricordava Mitch Mitchell…

Hai messo mano anche al sound del basso di Lemmy?
Eh no, il basso di Lemmy non si tocca! [ride] Mi viene in mente un aneddoto circa il Marshall di Lemmy: era venerdì, e il lunedì successivo saremmo dovuti entrare in studio per registrare le linee di basso quando, improvvisamente, ha smesso di funzionare. Eravamo nella merda, iniziai a chiedere in giro se ci fosse un tecnico che avrebbe potuto sistemare un amplificatore in così poco tempo. Il guitar-tech disse che conosceva un tizio, dunque gli portammo l’ampli e lo sistemò in tempo. Quando arrivò in studio il guitar tech assieme al Marshall gli chiesi: “cosa diavolo aveva questo amplificatore?” - “Nulla di che, solo qualche resistenza bruciata…ah e alcuni fili che andavano sistemati meglio visto che erano stati montati in modo strano…” Balzai in piedi: “Cosa? Non dirmi che avete messo mano alle modifiche che Lemmy ha fatto al suo ampli!” In poche parole, accendemmo il Marshall e il sound era troppo pulito, troppo ortodosso! Fortunatamente, il tizio che ci aveva messo mano, ricordava tutte le modifiche fatte da Lemmy e lo risettò come era.

Ci dici qualcosa sul Marshall plug-in su cui hai lavorato?
I migliori plug-in in commercio sono quelli di Softube e Universal Audio. L’idea di poter ricreare dei suoni a computer, sembrava una chimera e invece è divenuta realtà. Nel caso di Marshall molti dicevano: “è una impresa impossibile!” Abbiamo potuto visionare gli apparecchi del museo Marshall usciti nelle varie epoche ed abbiamo scelto il Plexi, l’ampli più famoso del brand. Abbiamo lavorato in collaborazione con Chris George (della Marshall) e scelto la combinazione testata (Plexi) e cabinet 4x12”

Che tipo di processo c’è dietro lo sviluppo di un plug-in?
E’ un processo molto interessante e, nel caso del Marshall plug-in, i microfoni sono stati posizionati in maniera tradizionale, come sono solito fare in studio. Poi abbiamo suonato diverse parti di chitarra e le abbiamo registrate. Dopodichè abbiamo modificato il tono e registrato di nuovo le parti.
Dopodiché sono stati misurati tutti i componenti dell’ampli e ricreata la forma elettronica di esso. Il Marshall plug-in è stato presentato alla scorsa Musikmesse di Francoforte (Germania) e ha creato subito un grande interesse.

Sei soddisfatto, immagino...
Sì, sono soddisfatto perchè suona proprio come il Marshall Plexi.

Ad occhi chiusi riusciresti a distinguere un vero Plexi dal plug-in?
Beh, dipende... alla fine, ciò che conta è chi suona! Conta se il chitarrista sa come utilizzare un ampli e una chitarra al meglio. Molti pensano che basta avere una certa chitarra e ampli per suonare come i vari guitar heroes, ma non è esattamente così. Lo stesso discorso vale per i plug-in.

Quando gli alieni atterreranno sulla Terra e troveranno la capsula del tempo di Tony Platt, quali album troveranno?
Non è semplice rispondere, ma direi Back In Black, Catch A Fire e Damn Right, I’ve Got The Blues.

Questi tre dischi ti rappresentano al meglio?
Assolutamente, sì. Spesso mi chiedono qual è il disco che preferisco tra quelli su cui ho lavorato ed io rispondo sempre che “deve ancora arrivare!" È un modo per mettermi costantemente alla prova, per migliorarmi sempre di più.

A proposito: stai lavorando a qualche disco in questo momento?
Ho terminato da poco di mixare il nuovo disco di Jett Rebel che ha appena firmato con Sony. E’ un artista pop olandese molto interessante ed ha soltanto 23 anni.







© 2016 Il Volo Srl Editore - All rights reserved - Reg. Trib. n. 115 del 22.02.1988 - P.Iva 01780160154